King Crimson - II parte
Qualche giorno fa un amico mi ha posto una domanda di quelle che ti aspetti quando hai voglia di parlare senza sosta: "che ne pensi dei King Crimson?"
Ahilui, ne penso anche troppo. Domanda per il neofita: come cominciare?
Riprendo da qui, dunque un post di qualche mese fa.
Postulando che non esistano dischi brutti a nome King Crimson, partirei dal primo, folgorante, esordio: in the court of the crimson king getta le basi e detta le regole di un intero genere, con genio, coraggio, anche un po' di retorica mellotronica (che nel prog non deve mai mancare) e di gusto per i due antipodi: l'improvvisazione totale, quella che ti conduce verso lidi inaspettati e luminosi, come in moonchild, e la tecnica rigorosissima, che regala stacchi impossibili, da ascoltare con il fiato sospeso (naturalmente sto parlando di 21st century schizoid man).
Aggiungete gli immaginifici testi di Sinfield, i paesaggi sonori percorsi da delicati flauti e punteggiati da un incredibile Giles (batterista assolutamente geniale), la voce già potente e cristallina e non ancora ruffiana di uno splendido Lake, le traiettorie imprevedibili della chitarra di Sua Maestà Fripp, la copertina che sposa ansia e fiaba, l'uomo schizoide e una luna giocosa.
Poi, tra un capolavoro e l'altro (di Islands parlerò dopo, perché è una meraviglia a parte), io pescherei Larks' Tongues In Aspic. Perché? Innanzitutto per la sezione ritmica, probabilmente la mia preferita di sempre: il batterista Bill Bruford lascia gli Yes all'apice del successo per gettarsi in un'avventura coraggiosissima; al suo fianco il giovane bassista John Wetton, dalla distorsione sempre in agguato, potente, preciso e inventivo, e con una voce caldissima; e completare il trio il (completamente folle) percussionista Jamie Muir, un personaggio che correva da una parte all'altra dei palchi vestito di pelle di leopardo a percuotere ogni oggetto gli si parasse innanzi. Unite un violinista proveniente dal country e l'immancabile Fripp, ed avrete un combo estremamente eterogeneo, ma ancora una volta capace di riproporre e rinnovare una formula fatta di nevrotiche spigolosità elettriche e dolci melodie, blues e sinfonia, improvvisazione e rigore. Le parti strumentali sono contorte, intricate, con strizzate d'occhio all'atonalità e ai tempi dispari e un lavoro pazzesco sui crescendo; ma nei migliori king crimson coesistono gli opposti, ed ecco le canzoni, le melodiche book of saturday ed exiles, e il blues di easy money, il tutto condito dagli innesti inattesi del mai domo Muir.
Ahilui, ne penso anche troppo. Domanda per il neofita: come cominciare?
Riprendo da qui, dunque un post di qualche mese fa.
Postulando che non esistano dischi brutti a nome King Crimson, partirei dal primo, folgorante, esordio: in the court of the crimson king getta le basi e detta le regole di un intero genere, con genio, coraggio, anche un po' di retorica mellotronica (che nel prog non deve mai mancare) e di gusto per i due antipodi: l'improvvisazione totale, quella che ti conduce verso lidi inaspettati e luminosi, come in moonchild, e la tecnica rigorosissima, che regala stacchi impossibili, da ascoltare con il fiato sospeso (naturalmente sto parlando di 21st century schizoid man).
Aggiungete gli immaginifici testi di Sinfield, i paesaggi sonori percorsi da delicati flauti e punteggiati da un incredibile Giles (batterista assolutamente geniale), la voce già potente e cristallina e non ancora ruffiana di uno splendido Lake, le traiettorie imprevedibili della chitarra di Sua Maestà Fripp, la copertina che sposa ansia e fiaba, l'uomo schizoide e una luna giocosa.
Poi, tra un capolavoro e l'altro (di Islands parlerò dopo, perché è una meraviglia a parte), io pescherei Larks' Tongues In Aspic. Perché? Innanzitutto per la sezione ritmica, probabilmente la mia preferita di sempre: il batterista Bill Bruford lascia gli Yes all'apice del successo per gettarsi in un'avventura coraggiosissima; al suo fianco il giovane bassista John Wetton, dalla distorsione sempre in agguato, potente, preciso e inventivo, e con una voce caldissima; e completare il trio il (completamente folle) percussionista Jamie Muir, un personaggio che correva da una parte all'altra dei palchi vestito di pelle di leopardo a percuotere ogni oggetto gli si parasse innanzi. Unite un violinista proveniente dal country e l'immancabile Fripp, ed avrete un combo estremamente eterogeneo, ma ancora una volta capace di riproporre e rinnovare una formula fatta di nevrotiche spigolosità elettriche e dolci melodie, blues e sinfonia, improvvisazione e rigore. Le parti strumentali sono contorte, intricate, con strizzate d'occhio all'atonalità e ai tempi dispari e un lavoro pazzesco sui crescendo; ma nei migliori king crimson coesistono gli opposti, ed ecco le canzoni, le melodiche book of saturday ed exiles, e il blues di easy money, il tutto condito dagli innesti inattesi del mai domo Muir.
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